A cuore aperto? Mica tanto
Hanno fondato insieme una bella rivista, Circulation: Cardiovascular Quality and Outcomes e, sempre di comune accordo, offrono le pagine del loro periodico ad una causa tanto nobile quanto temuta negli ambienti accademici: quella della Open Science.
Harlan M. Krumholz e John S. Spertus hanno dato a quattro moschettieri del data sharing come Peter C. Gøtzsche, Joseph S. Ross, Richard Lehman e Cary P. Gross la possibilità di spiegare le ragioni per cui il libero accesso ai dati della ricerca è una condizione imprescindibile per garantire la migliore assistenza al paziente. La panoramica che risulta dalle due Editor’s Perspectives è agghiacciante:
- a due anni dalla loro conclusione, meno della metà degli studi è pubblicata;
- solo il 46 per cento dei trial finanziati dai National Institutes of Health è pubblicato entro 30 mesi dal completamento;
- meno della metà degli studi su nuovi farmaci sottoposti per approvazione alla Food and Drug Administration esce entro cinque anni dall’approvazione del medicinale stesso;
- il 24 per cento dei trial resta non pubblicato a cinque anni;
- anche gli studi con risultati positivi sono a rischio: uno su tre non vede la luce.
Pure il lavoro dei revisori sistematici è pesantemente condizionato. L’esistenza di studi fantasma modifica le conclusioni delle revisioni nel 92 per cento dei casi: in altre parole, nove volte su dieci una revisione vale poco o niente proprio perché non ha potuto prendere in considerazione l’intero insieme delle ricerche effettuate.
Krumholz sembra aderire decisamente alla causa dell’Open Science e Spertus dichiara di sposare “a cuore aperto” le opinioni degli “accademici” ospiti sulla rivista. Ma, quasi a voler dare un colpo alla botte dopo averne dato un al cerchio, avanza una riserva: garantire il libero accesso ai dati della ricerca senza che questi siano passati al vaglio della peer review (non essendo stati sottoposti per pubblicazione o essendo stati respinti dalle riviste prescelte) può esporre chi consultasse i dati grezzi al rischio di prendere per buoni “numeri” di scarsa qualità. “Solo il cinque per cento degli studi in ambito cardiovascolare è esente da pecche”, sostiene l’editorialista. E ancora: ogni studio ha i propri punti deboli, noti solo ai ricercatori che l’hanno condotto: chi accedesse ai dati senza una conoscenza profonda dei metodi seguiti nella raccolta e nell’analisi rischierebbe di prendere lucciole per lanterne.
Spertus propone la creazione di un ente terzo, che si frapponga – secondo modalità non del tutto precisate – tra produttori e fruitori di dati. Una soluzione che lascia perplessi soprattutto quanti – non senza ragioni – nutrono dubbi sulla qualità di qualsiasi processo di peer review.
Per il momento, comunque, c’è poco da fare. I quattro articoli sull’Open Science sono liberamente accessibili. Il resto della rivista, no. E le opinioni degli autori, sottolinea un prudente disclaimer, riflettono il loro personale punto di vista, non necessariamente quello della American Heart Association, proprietaria della rivista.
Fonti:
Krumholz HM: Open Science and data sharing in clinical research. Basing informed decision on the totality of the evidence. Circ Cardiovasc Qual Outcomes 2012;5:141-2.
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