L'iPod ci rende persone migliori?
L’iPod rende i ricercatori migliori o peggiori? Un interrogativo che dilania le coscienze e sta spaccando il mondo accademico. Beh, non proprio: ma in tempi di Scienza 2.0 e di Information Technology sono questioni ineludibili, poco da fare. E chi siamo noi per eluderle?
Sempre più spesso nei laboratori delle Università o delle aziende e persino nelle corsie di ospedale si vedono operatori con l’iPod alle orecchie, che sul camice bianco ci sta anche bene. Un tool cool, ‘na roba di moda o una volgarità paragonabile a un bubble-gum con palloncino annesso?
Elie Dolgin dell’University of Edinburgh cautamente ammette: “In laboratorio ognuno è libero di lavorare con l’iPod in funzione: personalmente lo adoro, e spesso ascolto podcast di carattere scientifico, non necessariamente musica. Ma una parte di me sospetta che sarei uno scienziato migliore se le mie orecchie fossero aperte alle osservazioni e opinioni quotidiane dei miei colleghi. Avrei avuto idee diverse o sarei riuscito a raggiungere dei risultati scientifici più velocemente se avessi interagito con delle persone e non solo con un iPod?” Il biologo Richard Grant ritiene di sì: “L’iPod rende i laboratori più ‘insulari’, e non sono affatto convinto sia una cosa buona”. “Se hai su l’iPod nessuno ti parla”, sintetizza mirabilmente Marissa Sobolewski-Terry, che si occupa di ormoni di scimpanzè alla Universiy of Michigan. “Magari lavori anche di più, ma non impari nulla da chi lavora con te”.
Fermi tutti: Carl Cohen, presidente di Science Management Associates non ci sta: “Gli iPod aiutano a essere più creativi, non più futili. E alle occasioni in cui ci si incontra e ci si confronta si può arrivare più rilassati e concentrati proprio grazie al fatto che si è stati un po’ della giornata da soli grazie all’iPod”. Del resto, isolarsi è una necessità per molti ricercatori: “Quando gli iPod non esistevano nemmeno mi ricordo gente che si metteva cuffie senza nemmno ascoltare la musica solo perché non voleva parlare o aveva bisogno di concentrarsi”, fa notare Renee Edlund del Baylor College of Medicine di Houston.
Nulla di nuovo sotto il cerume, direbbe qualcuno.
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